Vendita simulata, le prove difendono dal redditometro

La compravendita simulata di un immobile, se adeguatamente provata dall’acquirente, può proteggere dal redditometro. Anche se, infatti, la sottoscrizione di un atto pubblico contenente la dichiarazione di pagamento di una somma di denaro per l’acquisto di un immobile (o di un altro bene) può costituire per l’ufficio elemento utile a determinare un maggiore reddito posseduto in capo all’acquirente, quest’ultimo può sempre fornire la prova contraria, mediante documentazione, in merito alla circostanza che l’atto di vendita stipulato ha in realtà natura gratuita.
Accade, infatti, spesso, che alcuni contribuenti, soprattutto nell’ambito familiare e per l’acquisto di immobili, stipulino un contratto di compravendita dissimulando un atto di donazione per diverse ragioni.
Alcuni, in particolare, scelgono la compravendita simulata di un immobile piuttosto che la donazione a titolo gratuito a causa delle difficoltà di accesso al credito bancario.

Se sotto il profilo civilistico può essere opportuno stipulare una vendita in luogo della donazione, dal punto di vista tributario ciò potrebbe causare dei problemi giacchè per l’amministrazione finanziaria, nell’ambito dell’accertamento sintetico, sussiste un indice di capacità contributiva in capo all’acquirente derivante dall’avvenuto acquisto (anche se apparente) del bene.

In particolare, in base alle vecchie regole applicabili agli accertamenti sintetici fino al 2008, l’ufficio considerava la spesa come incremento patrimoniale, e lo contestava nella misura di un quinto nell’anno dell’effettuazione e nei quattro precedenti. Dal periodo di imposta 2009 in poi, invece, l’ufficio attribuisce l’intero importo versato nell’anno di sostenimento della spesa, al netto dei disinvestimenti e dei mutui (che, nel caso di compravendita simulata, non ci sono).

Tuttavia, anche alla luce di una pronuncia della Cassazione (sentenza n. 8665/2002), secondo cui la prova della compravendita simulata non può essere rappresentata dalla mera produzione dei conti correnti bancari dai quali non emergono versamenti di denaro, l’ufficio tende spesso a non riconoscere il carattere simulato dell’atto, procedendo così all’accertamento.

Spetta, infatti, al contribuente accertato l’onere di dimostrare che il dato di fatto sul quale essa si fonda non corrisponde alla realtà. Pertanto, è fondamentale che il “finto” acquirente possa dimostrare con prove persuasive il carattere simulato del contratto di compravendita. In particolare, occorrerà dimostrare che il pagamento non è di fatto avvenuto e che, quindi, l’acquisizione del bene non denota una reale disponibilità economica, suscettibile di valutazione ai fini fiscali, poiché il contratto stipulato, in ragione della sua natura simulata, ha una causa gratuita anziché onerosa apparente (Cassazione 5991/2006).

In altri termini, nel caso la compravendita sia stata solo un atto simulato per diverse esigenza familiari, sarà l’acquirente simulato a dover dimostrare la mancanza di esborso finanziario e, quindi, a dover sconfessare l’atto impositivo.

Tuttavia, se secondo l’orientamento di legittimità la simulazione non può essere dimostrata mediante produzione della documentazione bancaria dalla quale non emerge alcun trasferimento, al contrario, però, è pur vero che l’assenza di movimentazioni bancarie, unita ad altri elementi, è prova della simulazione.

Ciò sussiste quando oltre all’assenza di movimentazioni bancarie, vi siano indizi che lasciano supporre la causa gratuita dell’atto quali l’età avanzata del venditore “simulato”, il rapporto di parentela, eventuali procure rilasciate dal venditore “simulato” al figlio in merito a successivi atti di disposizione dei beni.

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