Si può cedere un marchio? Prima di rispondere al quesito, appare opportuno effettuare alcune considerazioni preliminari in merito all’evoluzione della normativa sul tema.
Cessione marchio trattamento fiscale
Infatti, se è un soggetto non imprenditore a concedere in licenza un marchio a un’impresa, il trattamento fiscale ai fini delle imposte sui redditi delle royalties percepite va considerato partendo dall’art. 49, comma 3, lettera b) del D.P.R. n. 597/1973 (ante Tuir), il quale comprendeva tra i redditi di lavoro autonomo “i redditi derivanti dalla utilizzazione economica di marchi di fabbrica e di commercio e dalla utilizzazione economica di opere dell’ingegno, invenzioni industriali e simili, quando non sono conseguiti nell’esercizio di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice”.
Pertanto, fino al 1° gennaio 1988 (data di entrata in vigore del Tuir), i proventi derivanti dalla concessione in uso di un marchio compiuta al di fuori dell’esercizio di una qualsivoglia attività di impresa, erano considerati redditi di lavoro autonomo a tutti gli effetti.
Con l’introduzione del Tuir, la formulazione dell’art. 49, comma 2, lettera b) (ora art. 53) è cambiata radicalmente. L’art. 53 del Tuir non menziona più, tra i redditi di lavoro autonomo, quelli derivanti “dall’utilizzazione economica dei marchi di fabbrica e di commercio”.
La relazione ministeriale al Tuir stilata nel 1986 chiarisce il significato della norma in vigore affermando che: “ai redditi derivanti dall’utilizzazione economica di marchi di fabbrica e di commercio non si può riconoscere né natura di redditi di lavoro autonomo, né quella di redditi diversi dato che l’utilizzazione dei marchi d’impresa avviene o in sede di trasferimento dell’azienda o di un ramo di essa o mediante la concessione di licenze non esclusive, e quindi nell’esercizio d’impresa”.
Dal tenore delle note governative si presume che gli atti economici relativi al marchio abbiano rilevanza impositiva, ai fini delle imposte sui redditi, solo se compiuti nell’ambito di un’attività commerciale, siano cioè in grado di generare soltanto reddito d’impresa.
Alla luce di quanto detto, parte delle dottrina ha ritenuto possibile non assoggettare a imposta il corrispettivo derivante dalla concessione della licenza di un marchio compiuta al di fuori dell’attività d’impresa; tuttavia, l’ultimo inciso della relazione governativa al Tuir pare recuperare a tassazione la fattispecie, potendo effettivamente rientrare tra le “ipotesi marginali per le quali potrà soccorrere l’ampia previsione dell’art. 81 n. 11”, ora art. 67, comma 1, lettera l) del Tuir.
L’art. 67 del Tuir contiene, in effetti, l’elencazione tassativa dei redditi rientranti nella categoria dei redditi diversi, laddove vengono ricompresi quei redditi non contemplati nelle altre fattispecie reddituali; sono cioè redditi diversi quelli che, dalla lettura del dettato normativo, “non costituiscono redditi di capitale ovvero, se non sono conseguiti nell’esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente”.
È chiaro che deve pur sempre trattarsi di redditi, anche se diversi, e che tali redditi devono costituire un accrescimento patrimoniale imputabile, in rapporto di causa-effetto, a una fonte produttiva. Nell’ottica del legislatore possono, quindi, essere ricompresi nella nozione di reddito anche i “proventi conseguiti una tantum in relazione ad attività occasionalmente svolte dal contribuente”.
Le fattispecie in esame, non essendo più riconducibili nell’ambito del reddito di lavoro autonomo ex art. 53 del Tuir, e nemmeno nel campo del reddito d’impresa ex art. 55 del Tuir, in quanto non conseguite nell’esercizio di imprese commerciali, si potrebbero configurare come redditi diversi.
La soluzione allora più ragionevole, e forse anche l’unica possibile, sembra portare all’ipotesi prevista dall’art. 67, comma 1, lettera l) del Tuir.
Autorevoli interpreti della materia sono giunti a sostenere come proprio in questo gruppo di redditi potrebbero rientrare le fattispecie di concessione in uso del marchio da parte di un soggetto privato.
Si osserva, infine, che questa interpretazione non scaturisce dalla lettura di una espressa previsione legislativa, quanto piuttosto da un inciso di una relazione ministeriale, pertanto rimane l’incertezza sul comportamento che il contribuente deve tenere nella situazione in esame.
L’unico documento di prassi dell’Agenzia che conforta in tale ipotesi è la Risoluzione 30/E del 16 febbraio 2006, che ha chiarito come la concessione in licenza dell’utilizzo del marchio di fabbrica o di commercio, posta in essere da un privato, è suscettibile di assumere rilevanza reddituale in base alla lettera l), comma 1, articolo 67, Tuir, come reddito derivante dall’assunzione dell’obbligo di fare, non fare, permettere.
Al contrario, la cessione della proprietà del predetto bene assume rilevanza soltanto se effettuata nell’esercizio d’impresa e non anche da parte di una persona fisica che agisca al di fuori tale contesto.
L’esclusione trova un’esplicita conferma nella relazione governativa all’articolo 49 del Tuir (D.P.R. 917/86), in cui si motiva che “[…] i redditi derivanti dall’utilizzazione economica dei marchi di fabbrica e di commercio, si è ritenuto di non comprenderli più tra i redditi di lavoro, né tra i “redditi diversi”, nel rilievo che l’utilizzazione dei marchi d’impresa (mediante cessione o concessione in uso) avviene o in sede di trasferimento dell’azienda o di un ramo di essa o mediante la concessione di licenze non esclusive, e quindi nell’esercizio d’impresa”.
Infatti, l’attuale assetto normativo vigente in materia di imposte sui redditi, caratterizzato da una tipizzazione dei presupposti impositivi, continua a considerare tale elemento patrimoniale privo di effetti reddituali in capo ai soggetti non imprenditori, fatta esclusione per coloro che non sono residenti (lettera c, comma 2, articolo 23, Tuir).
Tali regole impositive si rendono applicabili anche ai soggetti che ereditano il marchio. Quest’ultimo va indicato ai fini successori nella relativa denunzia, non ricorrendo per la sua valorizzazione specifici criteri di determinazione.
Se è una persona fisica imprenditore a concedere in uso il marchio, le royalties percepite sono qualificabili come reddito d’impresa.
Così la cessione della proprietà del marchio di fabbrica o di commercio assume rilevanza reddituale soltanto se effettuata nell’esercizio d’impresa e non anche da parte di una persona fisica che agisca al di fuori tale contesto.
Mah, sono perplesso, vediamo di riassumere. ho registrato un marchio nel 2020, poi ho cessato l’attività.
Oggi mi hanno proposto di vendere questo marchio d’impresa ad una società che è disposta a darmi 50.000,00.
Se fosse plausibile la conclusione a cui è giunto l’autore dell’articolo non dovrei sottoporre questa, eventuale, somma a tassazione in quanto non ceduta nell’esercizio di impresa. Per l’acquirente sarebbe un costo detraibile, per il venditore non sarebbe considerato un reddito. Rimango insicuro.